CENNI STORICI SU LAGONEGRO
Lagonegro, cittadina alle pendici del Monte Sirino, che, secondo un’antica leggenda, vantava la presenza sul suo territorio di ben 33 chiede.
Purtroppo alcuni degli edifici religiosi una volta presenti nell’abitato risultano crollati per incuria del tempo; ciò nonostante attualmente è possibile visitarne un considerevole numero. l’itinerario ci porta a visitare il cuore del centro storico. Iniziando dalla Chiesa del Seggio, meglio nota come “Seggio di Sirino” (in onore della Madonna del Sirino patrona di Lagonegro), percorrendo antichi vicoli, si giunge nella parte più antica dell’abitato, ove, su una rupe, si erge la Chiesa di San Nicola al Castello, ricca di opere d’arte di considerevole valore.
ORIGINI GEOLOGICHE E PRIMI ABITANTI
Dalle ricerche del prof. De Lorenzo sappiamo che nel Pleistocene la zona di Lagonegro era occupata da un lago che si espandeva lungo il corso del fiume Serra tra il Timpone Rosso e il Monte Iatile, cingendo la rupe dolomitica del Castello, e il di cui emissario, scaricando poco più a Sud nel fiume Noce, ne ha prodotto nei millenni lo svuotamento completo. I primi popoli stanziali in questa zona furono i Siculi, razza celtica, proveniente dal Nord. Ad essi si sovrapposero gli Enotri, di razza pelasgica, occuparono tutta la regione che va dal golfo di Taranto a quello di Salerno spingendo i Siculi nella regione omonima. Nel secolo VIII a. C. sulla parte ionica sulla tirrenica si formarono le prime colonie di quella chefu chiamata Magna Grecia.
Un altro popolo degno di essere ricordato, perché si dice discendente di quelli di Troia, fu quello dei Sirini, fondatori di Siri, la bella città italiota posta tra Novasiri e Rotondella i quali quando nel V secolo a.C. la città fil distrutta dai Tarantini risalendo il corso del fiume Sinni, vennero a rifugiarsi qui e diedero nome al monte Sirino, posto sopra Lagonegro. Plinio li menziona tra gli undici popoli Lucani. Nel VI a.C. giunsero i Lucani, appartenenti alla razza Sannitica o Sabina provenivano dalle sponde del fiume Sele e prendevano il nome dal loro duce Lucio, come riferito da Plinio, o dal greco lucos, lupo, a indicare la terra dei luoghi di provenienza, o dal latino lucus bosco, dunque terra di boschi, o da lux, luce, a indicare la loro terra, posta a est. Popolo forte, valoroso e audace respinse gli Enori fino alla terra dei Bruzii. La regione che prese e conservò il nome di Lucania era confinata a Nord da una linea che congiunge il fiume Sele al Bradano, a sud, con la linea che congiunge il Lao al Crati, a est con il mar Ionio e a ovest con il Tirreno. Per la sua estensione e importanza e per le continue guerre mosse contro i popoli circostanti, la Lucania suscitò da subito la cupidigia dei romani.
ORIGINE ETIMOLOGICA DEL NOME LAGONEGRO E VARIAZIONE NELLA SUA EVOLUZIONE STORICA
L’antica tradizione locale, trasmessa attraverso i secoli da più di duemila anni, avvallata dagli storici contro le incertezze degli archeologi, fa risalire la città di Lagonegro all’antica
Nerulo o Nerulum, forte e importantissimo “oppidum in Lucania” come indica Tito Livio nel Dec. I, libro IX, del suo Ab Urbe Condita.
Nell’itinerario d’Antonino, fatto redigere da Giulio Cesare nel 44 a.C., in cui sono descritte le strade principali dell’Impero Romano con le stazioni e le distanze intermedie, troviamo descritta la via Aquilia o Popilia che collegando Capua a Reggio passava da Nerulo, indicata al milliarium MP. XXXIII. A Nerulum la via Papilia si congiungeva con la Herculea, anch’essa tracciata nell’itinerario di Antonino come via che collegava Milano (Mediolano) a Reggio (Columnamxxxxxx). I cartografi successivi hanno dimostrato che le misure di suddetto itinerario non sono esatte, che vi sono errori topografici spesse volte corretti da scrittori e copisti.
Dunque, ad oggi, non è possibile stabilire con certezza storica se l’antica città fondata sulla rupe di roccia dolomitica, che si eleva dalla sponda destra del fiume Serra per oltre 150 metri di altezza, sia l’antico nucleo di Nerulum, ma sappiamo per certo che nei dintorni della rupe, nel recinto del Castello e in siti adiacenti, sono stati rinvenuti vari reperti archeologici di epoca romana.
In particolare son state recuperate monete di bronzo ascrivibili al tempo dell’impero di Claudio, di Vespasiano, di Aureliano.
Certo è che la via Popilia si immetteva nella Basilicata attuale, provenendo val Vallo di Diano, in corrispondenza del valico del Fortino, passava in prossimità di Lagonegro, continuava verso il valico di Pecorone e attraversava la conca di Castelluccio. Nerulo, posta al punto di innesto tra la via Popilia e l’Erculea, divenne il luogo di passaggio degli eserciti romani e dei ribelli: tra questi le schiere dei gladiatori capitanati da Spartaco, che dopo la sconfitta subita dal console Licinio Grasso presso Grumentum, fuggirono nel paese dei Bruzii passando di qui.
Elementi che avvalorano l’ipotesi di Nerulum come centro romano sono i due tempi pagani, dedicati a Venere e a Giunone: il primo situato in località Santa Venere me presso il fiume Serra, che conserva ancora questo nome, l’altro in Lagonegro, presso la chiesa del Rosario, che prima di essere dedicata alla Madonna del Rosario era stata intitolata a San Cataldo. Recenti restauri iniziati nel 2002, poi interrotti per mancanza di fondi, hanno rilevato la presenza di tre ambienti sotterranei che attraversano longitudinalmente il pavimento. Poiché detti sotterranei erano collegati agli scantinati delle case limitrofe, qualche lagonegrese non troppo anziano si ricorda di aver giocato da bimbo con spade e armature tolte agli scheletri di sepolture presenti, ormai andate perdute o finite in qualche collezione privata. Monsignor Nicola Falcone sosteneva che l’antica Nerulum fosse situata nella contrada denominata Civita di Rivello, paese poco distante da Lagonegro, e che, distrutta dai Saraceni, fosse stato ricostruita sulla rupe del Castello.
Tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX vi furono infatti i Saraceni, testimonianza rilevata da un importante documento citato nel libro di Raele, San Macario abate protettore di Oliveto Citra, cenni biografici e novena (Roma, Tip. Guerra e Mizzi, 1911).Non sappiamo quando e perché da Nerulum il nome sia divenuto Lacus Niger. Ne troviamo un primo accenno nella pastorale del 1079 dell’Arcivescovo Alfano, in cui con il nome Lacum Nigrum, insieme ai comuni di Maratea, Rivello, Trecchina, Lauria, Latronico, andava a costituire la diocesi di Policastro.
Carlo Pesce, riferendosi agli scritti di Alessandro Falcone, ipotizza che I’etimologia di Lagonegro provenga dal greco la cos, “popolo”, e dalla parola nero, di origine sabina o sannitica che significa “fortezza”, da cui “popolo di Nerulo” o “popolo forte”. Falcone spiegala sostituzione di Nerulo con Lagonegro attribuendola agli eventi: “dopo del 493 della nostra Era, tempo in cui fu la confusione del linguaggio, generato per la venuta de’ Barbari nell’Italia (sotto la guida di Teodorico Re de’ Goti)…vi si aggiunse al traparola il Nerulo con alterazione”. Sempre il Falcone riferisce che i suoi cittadini imputavano il nome alla presenza di un antico lago posto sotto il Castello, a settentrione, il quale “circondato da abeti frondosi faceva l’acqua tetra e negra.”, oppure alla presenza del lago sotto il Monte Sirino, distante poco più di due miglia e tutt’oggi presente in contrada Lago Sirino nel comune di Nemoli, chiamato Lago di Nerulo, per distinguerlo dai numerosi altri laghi della Lucania, trasformato poi in Lagonero e corrotto in Lagonegro.
LAGONEGRO NEL MEDIOEVO
Nel Medioevo Lagonegro era munita di tre torri e porta di ferro all’ingresso del Castello. In quel tempo subì le vicende delle altre città lucane ed essendo posizionato al crocevia delle due vie sopra menzionate, dovette risentire più di tutte delle invasioni barbariche. Nel 1138, con il costituirsi del Regno di Sicilia, il territorio della Lucania orientale fu unificato in un’unica provincia con il nome di Giustizierato di Basilicata.
Del tempo del Barbarossa viene tramandato un fatto increscioso. Nel 1178, essendo sorta una rissa tra contadini del luogo e uno degli scudieri reali che accompagnavano due ambasciatori mandati dall’Imperatore al re Guglielmo di Sicilia per far ratificare gli articoli della pace stabilita a Venezia, i contadini assalirono la casa dove lo scudiero si era rifugiato, l’offesero a colpi di pietra e portarono via il diploma della pace con una coppa d’argento. Una volta venuto a conoscenza del fatto, Re Guglielmo fece impiccare ladrie complici. Lagonegro fù feudo, a partire dal 1297, concesso dalla dinastia Sveva all’ammiraglio Ruggiero di Lauria come premio per le sue vittoriose imprese militari contro gli angioini. Con la pace di Caltabellotta del 1302, che sancì il passaggio della Sicilia agli aragonesi e dell’Italia meridionale agli angioini, la Basilicata, il Cilento e il Cosentino divennero feudo dei Sanseverino e Lagonegro venne inserita nella Contea di Lauria.
Nel 1463 fu inserita nella Contea di Capaccio, sempre sotto i Sanseverino. In seguito a numerose rivolte del popolo lagonegrese, il re privò i Sanseverino del feudo riconoscendo alla comunità vari benefici. Durante la dominazione baronale Lagonegro ebbe tre volte il Regio Demanio, ossia la dipendenza diretta dal re: dal re Ladislao, dalla regina Giovanna II e dal re Federico d’Aragona, e sempre le fu revocato per concessioni fatte ai baroni. Nel 1498 il re Federico infatti donò e concesse a “Gasparre Saragusio o Saragozzola terra di Lagonegro, coi suoi uomini, vassalli, feudi, passi, banco della giustizia. Lagonegro si trovò così a passare dalla famiglia napoletana dei Sanseverino, ricca possidente di mezza Basilicata, allo spagnolo Saragusio, ancora più ingordo e avaro, pagando a caro prezzo i due anni di libertà goduti nel Reggio Demanio. Alla morte del Saragusio avvenuta nel 1518, il feudo di lagonegro passò alla figlia Giovanna, che lo vendette nello stesso anno a Giovan Vincenzo Carafa per seimila ducati.
FINE DEL GIOGO FEUDALE: DA LACUSNIGER A LACUSLIBER
Gian Vincenzo Carafa fu l’ultimo feudatario di Lagonegro. Parente del cardinale Gian Pietro Carafa, eletto papa nel 1555 con il nome di Paolo IV, sembrò al’inizio voler esercitare un dominio benigno, confermando da Napoli, dove risiedeva, tutti i privilegi, prammatiche, immunità, etc. concesse dai precedenti padroni, ma le aspettative dei cittadini furono presto deluse. Non appena egli si fu stabilito, insieme ai due figli Ottaviano e Ferrante, nel palazzo baronale di Lagonegro che si ergeva sulla vetta del Castello, scatenò un’aspra tirannia sui cittadini, abituati in vece a godere di una certa libertà per la continua assenza del feudatario. Le violenze e i soprusi di Carafa padre e figli crebbero così tanto che molti cittadini, per non subire violenze e per poter meglio cospirare contro di essi, espatriarono nei paesi vicini.
Uno di essi fu Paolo Marsicano. Nato a Napoli da genitori lagonegresi aveva assunto il titolo di barone per avere ereditato il feudo di Battifarano dal matrimonio con Carmosina Liguori di Policastro. Egli avversò i Cafarà in ogni modo stabilendosi nel Vallo di Diano, da dove, con soldi e consigli, sosteneva i suoi concittadini contro i tiranni. Sotto il suo impulso i Lagonegresi si rivolsero al Sacro Regio Consiglio muovendo contro il Carafa vari capi di accusa. Dopo un iter lungo e dispendioso per entrambe le parti, il giureconsulto Decio decise a favore di Lagonegro e di tutto fu steso atto pubblico in data 1 giugno1542. I Carafa non vennero più a Lagonegro, sia per odio nei confronti nei cittadini, sia perché oberati dai debiti sostenuti per condurre la causa; e nel 1548deciserodi disfarsi del feudo vendendolo, dopo aver ottenuto regolare assenso dal vicerè Don Pietro di Toledo, a Giovangiacomo Cosso, ricco commerciante spagnolo, per quattordicimila ducati. I cittadini esuli, e primo fra essi Paolo Marsicano, furono richiamati in città in un’assemblea cittadina, dove fu deciso, a nome di qualunque sacrificio, di avvalersi del diritto di prelazione mediante il quale, in virtù della Prammatica 63 de officio Caesaris, in caso di vendita del feudo, l’Università era preferita, allo stesso prezzo, rispetto a qualunque altrobone.
Dovettero combattere per ottenere la libertà, perché il barone Carafa aveva dichiarato di aver ricevuto ventimila ducati dal Cosso, anziché’ quattordicimila, ein più aveva chiesto e ottenuto altro regio assenso per lo jus di ricompra da Cosso, rivenduto al nipote, principe di Stigliano per cinquemila ducati. In questo modo il paese, per riscattarsi, avrebbe dovuto pagare venticinquemila ducati. Con sentenza del 17 ottobre 1549 il paese ottenne dal S.R. Consiglio, di godere del beneficio di prelazione al prezzo reale di quattordicimila ducati, che furono raccolti da tutti i cittadini: vendendo i propri beni, donando i pochi risparmi e le donne i propri monili. Più di tutti Paolo Marsicano partecipò con le sue ricchezze. Una volta saldati i creditori, onde evitare che si ripetesse la revoca del beneficio, come già accaduto con i precedenti regnanti, il 27 maggio 1551 fu chiesta, e ottenuta al vicerè Don Pietro di Toledo, la proclamazione a Regio Demanio, con cui si abolivano i diritti, gli usi e gli abusi feudali, e i cittadini rientravano nella diretta dipendenza e giurisdizione del re. Non paghi e sicuri di tale concessione, ottenuta al costo di tanti sacrifici, i cittadini nel 1552 inviarono i due sindaci della città a Innsbruck, dall’Imperatore Carlo V che confermò, on pergamena dotata disigillo imperiale (andata perduta) lo status di Regio Demanio e i 28 capi di privilegi e grazie ricevute dal Vicerè. Così Lagonegro passò dal dominio feudale, durato 254 anni, a quello del Reggio Demanio e fu detta “Baronessa o Barone di se stessa”. I cittadini chiesero e ottennero dall’Imperatore il privilegio di poter mutare il nome della città da Lagonegro in Lagolibero. Il nuovo nome fu adottato in tutti gli atti pubblici e solenni con la dicitura Lacusliberma non entrò mai a far parte nell’uso della lingua del popolo.
DAL REGIO DEMANIO ALLA FORMAZIONE DELLO STATO NAZIONALE
Ottenuta l’appartenenza al Regio Demanio, fu posto a capo dell’Università il Governatore e Giudice, nominato direttamente dal re. Egli doveva essere di luogo demaniale, distante da Lagonegro al meno trenta miglia, per evitare che i baroni potessero far nominare i propri vassalli al governo della città. L’Università era amministrata da due Sindaci e quattro Eletti con ufficio annuo. I due sin da ci nominavano altri ufficiali per l’ordine pubblico, scelti tra soldati del luogo. Il popolo si radunava in un sedile pubblico detto “il Tocco”, situato nella piazza disotto, e al lato del quale era il palazzo del governatore. Le riunione si tenevano sotto l’olmo grande, “sotta l’Urmu”.
Richiamati gli esuli in patria, famiglie forestiere vennero ad abitare a Lagonegro e famiglie locali furono ascritte in nobili Sedili di altre città. Furono indette feste pubbliche e funzioni religiose a festeggiare l’avvenimento, il più importante della storia cittadina, almeno fino alla cacciata dei Borbone del 1860.
Nessun avvenimento degno di nota viene registrato nella cronaca cittadina per oltre un secolo, e la popolazione della città passò dai 414 fuochi (o famiglie) del1545, ai 771 nel 1648.
Nel 1637 accadde che il vicerè duca di Medina, avendo bisogno di denaro per XXXXXXX le milizie e per soddisfare l’ingordigia spagnola, decise di vendere alcuni territori sottoposti al regio demanio, e tra essi vi era la città di Lagonegro.
Si giunse all’emanazione di bandi, ai quali concorse don Giacomo Pignatelli, che intendeva acquistare Lagonegro come suo feudo, e i Lagonegresi dovettero ricorrere indignati al Tribunale della Regia Camera presentando i documenti confermati dall’imperatore Carlo V, che ritenevano il regio demanio “stabile e durevole”. La revoca fu ottenuta, ma il vicerè pretese, per la conservazione dello statusregio demanio, diecimila ducati.
Nel 1656 Lagonegro, alla stregua di molte città italiane, fu devastata dalla peste. L’arciprete del tempo, don Pietro Falabella, segnò nel registro dei morti, con una piccola mano dall’indice proteso seguita dal motto “hinc incipit flagellumDei”, il nome del primo appestato, tale Marco Alberto, il quale il giorno 25Maggio 1656, di ritorno da Latronico, cadde fulminato all’ingresso del paese. In quel sito fu eretta, nello stesso anno, una piccola cappella dedicata a San Rocco, purtropponon più esistente.
Nel 1707 Lagonegro incorse di nuovo nel pericolo di perdere la libertà, e di tornare al giogo feudale, per Opera del conte di Policastro Ettore Carafa, che aveva iniziato pratiche in gran segreto presso la corte di Napoli al fine di acquistare Lagonegro. Ancora una volta i cittadini dovettero correre a Napoli a mostrare i preziosi documenti e privilegi che attestavano la perpetua esenzione della città dal dominio feudale. Per disperdere le tracce dell’odiato feudalesimo subito, e a dissuasione di chiunque volesse reintrodurlo, fu pensato bene di abbattere il piazzo del Barone che sorgeva sulla roccia del Castello, e non fumai permesso a nessuno di costruire in quel luogo. L’area rimase come piazzetta pubblica fino al1858, quando fu adattata a camposanto, e i sotterranei del palazzo adibiti a sepolture e ossario.
Con i moti rivoluzionari del 1799 la monarchia fu abbattuta e proclamata la repubblica partenopea, ma istantaneamente si iniziò a promuovere la controrivoluzione per recuperare il regno ai Borbone. Tra quelli che combatterono per gli ideali repubblicani, sacrificando la propria vita, vi fu Cristoforo Grossi, giovane medico di famiglia facoltosa, nato a Lagonegro nel 1771 e giustiziato a Napoli nel 1799 dopo aver fatto parte del “battaglione sacro” composto da professori e studenti di medicina dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli.
In questo periodo, e durante il successivo decennio francese (1807-1815) si costituirono bande di briganti, che protette dai monti e dalla fitta boscaglia di Basilicata, e aiutate spesso dalle popolazioni locali, prendevano di mira i soldati francesi e napoletani che gareggiavano con essi in ferocia e vendetta. Adaggi ungersi a loro, nel 1808, una grande flotta di navi, provenienti dalla Sicilia, getto sulle coste del golfo di Policastro gruppi di galeotti, che misero a ferro e fuocola costa occidentale e arrivarono sino al Fortino, sul Cervaro, tra Casalbuono e Lagonegro, dove era posto un distaccamento di soldati francesi tenere libera la strada per i commerci.
Con il periodo francese Lagonegro fu prescelta da subito come piazza d’armi e ospitò stabilmente numerose truppe. La città, posta allo sbocco della grande via che partendo da Napoli cessava proprio qui di essere rotabile e proseguiva in pessimo stato per le Calabrie,
costituiva non solo un punto di passaggio e di concentramento delle truppe provenienti dalla capitale, ma anche un luogo strategico da cui poter sorvegliare le spiagge del vicino Golfo di Policastro, dove spesso sbarcavano truppe di emissari borbonici. Mancando gli alloggi per le truppe, varie case private e chiese furono ridotte a caserme, tra cui la chiesa della Santissima Trinità, all’ora in costruzione e che fu utilizzata come magazzino di farine.
Con la dominazione francese fu abolita la feudalità: con la Legge emanata da Giuseppe Napoleone il 2 agosto 1806 che spogliava i feudatari d’ogni potere e privilegio, permettendo loro di conservare i titoli nobiliari.
La legge di soppressione degli ordini monastici del 13 febbraio 1807risparmio a Lagonegro l’eremo del Convento di Santa Maria degli Angeli, appartenente ai Frati Cappuccini. Nel 1813, ad abbellire la piazza grande, fu posta una grande fontana di forma circolare fatta con la pietra delle cave del Timpone, con una spesa di ottocento ducati. A ridosso della vasca maggiore fu inciso: “Anno sexto dominationis optimi Principis Ioachini Napoleonis. A.D. MDCCCXIII”, scritta che nel 1845 un funzionario borbonico la fece cancellare a colpi di scalpello.
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