LE LEGGENDE DEI CANDELABRI DI PIAZZA UNIVERSITA’ A CATANIA
Nei primi anni del novecento nella piazza vi erano collocati quattro eleganti chioschi per bibite posti ai quattro angoli; i chioschi, di bibite o di giornali in elegante stile Liberty, hanno caratterizzato il panorama della piazza fino alla prima metà del novecento.
Nel 1957 in Piazza Università vennero sistemati quattro candelabri bronzei realizzati da Domenico Maria Lazzaro (1905-1968), artista catanese. Egli fu uno scultore prestigioso ed ha legato il suo nome a molte opere d’arte catanesi, tra le quali la statua del Palazzo di Giustizia, il basamento del monumento al Cardinale Dusmet in Piazza San Francesco e le statue delle Arti nell’ingresso monumentale di Villa Bellini.
LE LEGGENDE DEI QUATTRO CANDELABRI
Realizzati nel 1957 dal maestro Mimì Maria Lazzaro, al quale fu poi dedicato il celebre Istituto d’Arte di via Crociferi (oggi trasferitosi altrove), e dallo scultore Domenico Tudisco, i basamenti dei quattro candelabri bronzei hanno da sempre fatto da cornice ai maestosi palazzi del Comune di Catania, dell’Università degli Studi di Catania e del Palazzo San Giuliano, posti ai loro lati.
La piazza Università nasconde non una, ma ben quattro leggende rappresentate dai famosi quattro candelabri in bronzo, ognuno dei quali racconta una leggenda: quella della giovane Gammazita, dei fratelli Pii Anapia e Anfinomo, del paladino Uzeta e di Colapesce.
1) LA LEGGENDA DEI FRATELLI PII
Uno dei quattro caratteristici candelabri ubicati presso la centralissima piazza Università è dedicato alla leggenda dei fratelli Pii, Anfinomo e Anapia.
Lampione dei fratelli Pii – Piazza dell’Università di Catania
Si racconta che essi, mentre lavoravano la terra in un campo ai piedi dell’Etna insieme agli anziani genitori, furono sorpresi da una spaventosa eruzione che imperversava minacciosa (un’altra versione racconta che i genitori, paralitici, si trovavano in casa). In preda al panico, decisero di fuggire.
Ma, poiché i genitori non erano in grado di sostenere il passo veloce, con grande spirito di sacrificio e altruismo, caricarono questi sulle proprie spalle, con l’inevitabile conseguenza di rallentare il passo ed essere così raggiunti dalla incombente lava. Quando la lava li raggiunse, si divise miracolosamente in due rami per poi ricongiungersi, lasciando i fratelli e i genitori incolumi. L’episodio era ben noto nell’antichità come esempio di “pietas”. Era considerato un vanto di Catania e furono coniate monete, innalzati tempi e scolpite statue. La loro tomba fu posta nel “Campo dei fratelli pii” presso il tempio di Cerere
Il miracolo stupì gli abitanti di Catania, che soprannominarono i giovani “fratelli pii” ed il luogo dove essi passarono “Campi pii”.
In loro onore vennero innalzati templi, scolpite statue e coniate monete. La loro tomba fu posta nel “campo dei fratelli pii” presso il tempio di Cerere. Non è improbabile che a questa leggenda si sia rifatto Virgilio nell’episodio di Enea che fugge dall’incendio di Troia con il padre Anchise sulle spalle.
2) LA LEGGENDA DI COLAPESCE
Quella di Cola Pesce probabilmente è la leggenda più famosa delle terre siciliane, esportata oltre lo stretto e presente in tantissime varianti. Abile sub, tale da poter abitare anche settimane e mesi sott’acqua proprio come un pesce, era un giovane amante del mare e degli abissi. Cola (Nicola) viveva vicino a Capo Peloro a Messina. Egli preferiva passare le sue giornate al mare piuttosto che stare sulla terraferma. Il mare era la sua passione più grande: quando esplorava i silenziosi e vasti abissi, si sentiva libero e pieno di vita.
Lampione di Colapesce – Piazza dell’Università di Catania
Tuttavia, la madre, contraria alla sua passione, spesso lo rimproverava; un giorno arrivò addirittura al punto di maledirlo: “Che tu possa diventare un pesce!” gli disse. A poco a poco la sua pelle si ricoprì di squame e le mani e i piedi si trasformarono in pinne
La sua fama si diffuse per tutta la Sicilia, raggiungendo anche la corte del re Ruggero, il quale era ansioso di conoscerlo. Egli dunque si recò a Messina per testare le abilità marine di Colapesce: gettò in mare una coppa d’oro e il ragazzo si tuffò a mare per recuperare il prezioso oggetto.
Re Federico II di Svevia, venuto a conoscenza di questa incredibile qualità del giovane, volle metterlo alla prova gettando prima una coppa e poi proprio la sua corona negli abissi, chiedendo che gli venisse restituita dopo averla recuperata. Cola Pesce senza timore alcuno si fiondò negli abissi riportando a galla i due oggetti lanciati dal re. Ma, nel restituirli, raccontò dell’incredibile meraviglia dei fondali siciliani. Così incuriosito dalle storie raccontate dal giovane, il re lanciò il suo anello e Cola Pesce prontamente, ancora una volta, lo recuperò.
Il re lo ricompensò, ma decise di sottoporlo ad altre due prove, così gettò una corona nel punto più profondo del mare. Mentre Colapesce era alla ricerca dell’oggetto, scoprì che la Sicilia poggiava su tre colonne, due delle quali erano intatte, ma la terza era distrutta da un fuoco tra Catania e Messina. Ma stavolta non portò al re belle notizie, in quanto nella sua immersione scoprì che la Sicilia era poggiata su tre colonne: una a Capo Passero, una a Capo Lilibeo e una a Capo Peloro, proprio sotto Messina, e che per di più questa colonna era incrinata, con la possibilità che crollasse da un momento all’altro.
Colapesce ritornò in superficie e informò il re su ciò che aveva visto, ma il re non gli credette. Il ragazzo decise di dimostrargli che stava dicendo la verità. “Maestà, vedete questo pezzo di legno? Mi tufferò in mare con esso e se ritornerà in superficie bruciato, significherà che il fuoco esiste, come ho detto io; in tal caso io sarò morto perché il fuoco mi avrà bruciato” disse Colapesce, e si gettò in mare coraggiosamente.
Il re, allarmato, gli chiese di andare a controllare meglio, ma data la profondità e la stanchezza, Cola Pesce domandò un pugno di lenticchie da portare nei fondali: se le lenticchie fossero tornate a galla ciò sarebbe stato segno della sua morte. Cola Pesce si immerse e dopo qualche tempo riemersero le lenticchie. Tutti aspettarono il suo ritorno, ma Colapesce non risalì: egli scelse di sostenere la colonna danneggiata per far sì che l’isola non sprofondasse. La leggenda narra che Colapesce continui ancor oggi a sorreggere la Sicilia e a volte la terra fra Messina e Catania trema poiché Colapesce cambia posizione.
Secondo la leggenda, Cola Pesce non è morto ma, avendo visto che la colonna incrinata stava cedendo, si è sostituito ad essa ed è ancora li a sostenere Messina e la Sicilia intera. Infatti, quando vi è un terremoto, si dice che Cola, stanco di sostenere la colonna, cambia spalla generando il tremore della terra.
LA LEGGENDA DI GAMMAZITA
Il Pozzo Gammazita si trova nel centro storico di Catania, in Via San Calogero, nei pressi di piazza Federico II di Svevia e fa riferimento ad un racconto leggendario avvenuto al tempo della dominazione angioina in Sicilia, durante la Guerra del Vespro.
Lampione di di Gammazita – Piazza dell’Università di Catania
La leggenda narra di una fanciulla catanese di nome Gammazita, bellissima virtuosa e promessa sposa. Di lei s’innamorò follemente un soldato francese, Droetto, disprezzato dalla giovane che non ricambiava il suo amoreche perdendo la testa per lei non le tolse mai gli occhi e i pensieri di dosso. Tanto che la giovane catanese non usciva mai da sola, ma sempre accompagnata per paura di trovarsi faccia a faccia con il suo perseguitore. Un giorno, forse per imprudenza o per necessità, decise di andare al pozzo nei pressi del Castello Ursino di Catania e fu inseguita dal soldato d’oltralpe.
Il giorno del suo matrimonio, mentre si recava al pozzo nei pressi del Castello Ursino, Gammazita fu aggredita dal soldato e pur di non piegarsi alle sue minacce, decise di gettarsi nel pozzo e dare la sua vita piuttosto che disonorare il proprio impegno.Per l’occasione partì una vera e propria caccia all’uomo nei confronti di Droetto. Infatti, gli abitanti catanesi fecero pronunciare la parola “ciciri“ (ceci in dialetto) a diversi passanti e grazie a questo shibbolet, parola molto difficile da pronunciare per chi parla un’altra lingua o dialetto, cercarono di individuare il soldato.
Versioni successive arricchiscono il racconto aggiungendo personaggi di contorno, tra questi si racconta della bellissima donna Macalda Scaletta, vedova del signore di Ficara, la quale attirava a corte tutti i cavalieri francesi e siciliani, ma era innamoratissima del suo paggio Giordano e sfuggiva a tutte le proposte amorose.
Un giorno però Giordano vide la giovane Gammazita e se ne innamorò perdutamente, questo scatenò la folle gelosia di Macalda che si accordò con il francese de Saint Victor per tenderle un tranello: questi avrebbe dovuto uccidere Gammazita e così Macalda sarebbe stata sua.
Un giorno, il francese, alla fonte, catturò la fanciulla, la quale riuscì a liberarsi e non vedendo altra via di scampo, preferì, per il suo onore, gettarsi nel pozzo. Giordano, in preda alla rabbia, assalì il suo nemico, uccidendolo.
La virtuosa Gammazita divenne esempio di patriottismo e di onestà delle donne catanesi. Inoltre, vi sono differenti leggende che spiegano l’origine del nome “Gammazita”: dall’opera “La Gemma zita” di Giacomo Gravina, nella quale si raccontano le nozze tra la ninfa Gemma e il pastore Amaseno.
Il dio Plutone (Polifemo) si innamorò della ninfa, così da scatenare la gelosia di Proserpina, che la trasformò in una fonte. Dunque, gli altri dei decisero di trasformare anche Amaseno in una fonte, così da unire i due amanti per sempre.
Pertanto il nome “Gammazita” nasce dall’unione delle due parole “gemma” e “zita” (“sposa” e “fidanzata). Un’altra spiegazione, lega questo nome a due lettere dell’alfabeto greco “gamma” e “zeta”, incise sull’antico muro che fiancheggia la fonte.
1) LA LEGGENDA DEL PALADINO UZETA E LE SUE GESTA
Eternato in uno dei quattro candelabri che abbelliscono “Piazza Università” , il Paladino Uzeta si mostra a noi nelle vesti di un prode cavaliere medievale.
Lampione del Paladino Uzeda – Piazza dell’Università di Catania.
In realtà è un personaggio di fantasia inventato dal giornalista catanese Giuseppe Malfa per spiegare la denominazione del Castello Ursino.
La leggenda narra di un giovane di umili origini di nome Uzeta, il quale si innamora della principessa Galatea, figlia del re Cocalo. Un giorno, durante una passeggiata nei pressi del lago di Nicito, il cavallo della principessa si imbizzarrisce, lei cade e sviene.
Uzeta si precipita subito da lei e preso dall’emozione la bacia, ma quando la principessa si risveglia, gli rivolge parole cariche d’odio. Infatti la figlia del re non avrebbe mai potuto concedersi ad un uomo che non era nemmeno cavaliere.
Dopo questo sfortunato incontro, Uzeta decide di diventare un eroe per conquistare il cuore della sua amata: sarà lui che sconfiggerà i giganti Ursini e riuscirà a coronare il suo sogno d’amore con la principessa Galatea.
Il paladino Uzeta, giovanotto di umili origini e figlio di gente povera, conquistò il cuore e la benevolenza del re Federico II di Svevia grazie al suo coraggio e al suo valore. La leggenda narra che con la sua tenacia sconfisse i giganti Ursini, che all’epoca abitavano l’attuale Castello Ursino (da cui prende nome), sconfiggendoli e cacciandoli dalla poderosa costruzione. Tale impresa gli valse anche la mano della figlia del re Federico.
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